Cuori con la coda. Storie di dolori, gioie e fotografia
Pongo è arrivato nel 2005, lui aveva tre mesi, io 36 anni ed ero sotto chemio per un cancro al seno.

Non era il mio primo cane, ero (letteralmente) cresciuta con un Boxer.
Avevo forse quattro anni, vivevo a Legnano e i miei genitori avevano subìto un furto d’appartamento, scossi dall’evento decisero di prendere un cane da guardia; non ho idea di chi gli abbia consigliato un boxer ne se fu una scelta tutta loro sta di fatto che per i 15 anni successivi facemmo spesso dell’ironia su questa cosa.
Il Boris (così si chiamava) era il cane più mite del pianeta.
Se ne andò che avevo 17 anni in modo orribile, torsione dello stomaco, era fine agosto del 1986 e “emergenza veterinaria” o “turno domenicale e/o notturno” erano cose non contemplate nell’allora piccola cittadina di provincia che era Bassano del Grappa.
Fu la mia prima grande perdita, il mio primo dolore tagliente.





La vita non mi lasciò respirare tanto, tempo dieci anni scarsi morì in un incidente stradale la mia migliore amica, non aveva neanche trent’anni. Altri dieci anni scarsi e arrivò il cancro (beh, e tante altre cose che però un po’ impallidiscono a confronto).
Non so se fu il profondo sconforto oppure la mia vicina di casa con una nuova cagnolina, sta di fatto che mi sembrò il momento adatto per prendere un cane, la casa era di proprietà del mio compagno di allora, avevamo (e ho ancora perché il compagno è cambiato ma la casa è la stessa) un immenso spazio verde e lavoravamo in proprio quindi non lo avremmo lasciato solo tutto il giorno.
Fu così che andai a prenderlo da una cucciolata, oscillavo indecisa tra lui e il suo fratellino ma forse fu solo un falso tentennamento perché ero già innamorata di lui, di quegli occhi grandi con l’espressione di chi è stato abbandonato per anni lungo la strada, le orecchiette con pelo a onde, le sopracciglia color cappuccino.
E così mentre la bimba dei proprietari della cucciolata strillava disperata io lo portai via con me, in auto me lo misi in grembo e lui mi fece la pipì sulla gonna bianca.
Diciassette anni dopo, mentre lo tenevo in grembo ormai privo di vita sul sedile posteriore dell’auto ho pensato a come si stava chiudendo il cerchio, era arrivato e andava via in braccio alla sua mamma umana, in auto.


Non starò a raccontarti di tutti questi anni insieme e di come ci siamo conosciuti e plasmati l’un l’altra, ma ti parlerò dei pensieri che si susseguono nella mia testa in questi giorni di dolore immenso.
Ci sono molti modi di vivere un cane: può essere il classico “animale da compagnia”, alcuni non entrano mai in casa, altri sì, molte famiglie vivono la loro vita e il cane è una figura marginale, quando se ne va il dolore c’è ma poi passa. È una perdita, punto.
Poi c’è il cane partecipe alla vita di famiglia, quel cane è a tutti gli effetti un membro del nucleo famigliare, solo non è umano, oppure, come piace pensare a me, siamo noi parte del branco solo che non siamo cani. In questo caso non è solo una perdita, è qualcosa di più.
La vita, le dinamiche, i ritmi, le emozioni, gli eventi cambiano con la loro presenza, si invecchia, si cresce, si matura con loro. Io con la sua assenza mi sono (ingenuamente) resa conto di come sia diversa rispetto a quando è entrato nella mia vita. “Ovvio” dirai tu “sono passati 17 anni e ti sono successe mille cose”. Certo, ma molto della mia evoluzione è dovuto a lui. Io ho perso un COMPAGNO e se questa parola ti sembra eccessiva per me non lo è perché, di fatto, è il compagno con cui ho vissuto più a lungo.
Il dolore per la sua perdita va ad ondate, a volte mi sembra di riuscire a respirare con il naso fuori a pelo d’acqua, altre volte mi sembra di affogare perché il dolore diventa fisico, sento il cuore e i polmoni comprimersi, non respiro, e il modo di dire “ho il cuore a pezzi” è quanto di più reale io provi perché sembra davvero spezzarsi, FISICAMENTE.
Ho avuto (ora un po’ meno) pensieri orribili e ossessivi, ho dovuto chiedere in farmacia degli integratori per l’umore perché le giornate erano devastanti, mi svegliavo di notte in preda all’ansia e mi mancava l’aria, pensavo: “e se non è morto? Se si sveglia nella cassa in cui l’ho messo, sotto terra? È un cucciolo amore mio, ha sempre tanta paura, sarà terrorizzato” oppure mi ritrovo a pensare che non voglio che piova tanto perché altrimenti l’acqua arriverà fino a lui, inzupperà la cassetta di legno e lui starà al freddo e al bagnato.
I primi giorni dovevo combattere con l’istinto di andare lì e scavare, riaprire la cassettina e guardarlo, accarezzarlo, controllare se fosse davvero fermo immobile come lo avevo sistemato.
Persino le mie emozioni per i temporali sono cambiate, un tempo li amavo ma il suo terrore, il doverlo tenere stretto anno dopo anno mi faceva vivere con l’ansia che arrivasse un temporale con la conseguenza spesso di non dormire di notte. E ora che lui non c’è più non riesco a cancellare quella sensazione.
Pongo aveva problemi di salute ormai da due anni, stava male e poi bene a mesi alterni, quest’anno per me è stato difficile, dovevo accudirlo come un qualsiasi familiare anziano, non potevo (volevo) lasciarlo solo per troppe ore per paura stesse male, cibo preparato apposta, medicine importanti mattina e sera sempre alla stesa ora quindi gestione della vita in base a questi orari, corse dal veterinario anche di notte quando stava male e soffriva.
Dal punto di vista pratico, ma soprattutto emotivo, mi sono consumata, non avevo più una vita, desideravo dedicarmi all’avvio della mia attività e dovevo/volevo essere concentrata, volevo viaggiare di nuovo come prima, anche con lui, ma era impossibile perché troppo anziano. Quest’anno ho avuto pensieri orribili come: “Pongo, amore, vai” per poi sentirmi un mostro per averlo pensato.
Il punto è che, per questi motivi e per i lutti terribili affrontati nella vita, ero convinta di essere pronta a lasciarlo andare. E invece no.
È stato ed è ancora mille volte più terribile di quanto immaginassi, non ho mai avuto pensieri ossessivi o necessità di integratori o farmaci per superare perdite dolorose, neanche quando ho perso il mio papà.
Cosa mi stai dicendo Marzia? Che Pongo era più importante del tuo papà? Cero che no, ma ho dovuto chiedermi perché provassi e provo queste cose. Me lo sto ancora chiedendo, e non credo di avere una risposta univoca o risolutiva. Certo è che il fatto che i cani sono sempre i nostri cuccioli e noi sempre un po’ le loro mamme amplifica il dolore. Il senso di responsabilità del proteggerli e il dolore che ne deriva per la sensazione di non averlo fatto sono devastanti. Poi a volte affrontiamo dei dolori in modo diverso a seconda del periodo che stiamo vivendo, più o meno difficile su altre basi. Ma non è solo quello.
Ho pensato e pensato e mi sono resa conto che ho avuto un rapporto totalitario con lui, soprattutto negli ultimi anni di cure e attenzioni, il mio investimento emotivo nei suoi confronti è stato totale. Il tempo passato con lui è stato totale.
Veniva al lavoro con me. Veniva in ferie con me



























Natale, Capodanno, gite, neve, fiume, lago, montagna con me










Ultimamente soprattutto eravamo io e lui a casa 24 su 24 con i nostri ritmi sempre uguali da ormai tre anni, sveglia, coccole, pipì, ogni tanto colazione al bar insieme, qualche commissione insieme, al supermercato … “ecco pastiglietta amore, ecco pappa Bau, fai nanna amore io sono qui”.






I nostri viaggi in auto, persino nei miei tour fotografici ultimamente lo portavo con me




Ci siamo vissuti. Io e lui, lui e io. Insieme a lui ero felice.
Mi sono resa conto di come la mia felicità fosse per la maggior parte legata a lui, ho passato momenti terribili sotto ogni punto di vista: la fine di una relazione, la perdita di mio papà, la chiusura della mia attività, la disoccupazione, i problemi economici e mille altri dolori di cui non parlo… mi guardo attorno e mi rendo conto che ho mille motivi per essere preoccupata e ansiosa, le cose non vanno proprio in discesa ne per me, ne per il mondo.
Con lui al mio fianco queste cose sbiadivano, la capacità dei cani di farci sorridere, ridere, rasserenarci è inestimabile, come disse un giorno Walt Disney nel film Lilly e il vagabondo:
“C’è una sola cosa che tutto il denaro del mondo non potrà mai comprare: lo scodinzolio di un cane..”
Loro hanno la capacità di salvarci (e di cani che salvano essere umani, nel senso non letterale del termine ma in un modo più profondo, ti vorrei segnalare un libro meraviglioso che ho letto tanti anni fa, “fantastica Gracie” , te lo lascio linkato perché merita tantissimo, racchiude tutta la gioia, la preoccupazione, il dolore e gli insegnamenti che un cane può darci) ma mi sono anche chiesta se sia giusto dar loro il peso di una tale responsabilità, se sia stato giusto investire Pongo della responsabilità di rendermi felice, di affidarmi a lui per questa felicità.
Pongo mi ha salvata da enormi tristezze, mi ha fatto vivere momenti incredibili che senza non avrei mai vissuto e vorrei raccontartene uno particolarmente significativo che porterò sempre con me come la più meravigliosa lezione di vita.
Eravamo al Le Mont-Saint-Michel, in Normandia, era stata una giornata intensa, mattina St Malo poi le Mt St Michel (chi lo ha visto sa il su e giù incredibile di tutti i gradini che ci sono).

L’idea era di rimanere fino alla sera per vedere salire la marea. Pongo allora aveva già 14 anni e mezzo ma, fortunatamente, stava ancora bene e infatti ha scarpinato con noi tutto il tempo (era stanchissimo e aspettando la sera si è fatto dei gran sonni) .

Poi è rimasto lì con noi, perplesso, in mezzo al vento freddo (perché i cani non sanno cosa stai facendo, ma rimangono lì ad aspettare le tue direttive perché si FIDANO DI TE, CIECAMENTE, e questa è una delle cose che più mi fa male, aver deciso per l’eutanasia mi fa sentire un mostro perché lui si fidava di me, e io l’ho tradito, questo è un altro pensiero ossessivo di cui faccio fatica a liberarmi).


Al momento del rientro, stanchissimi, stavamo salendo sul bus navetta per rientrare al parcheggio (l’andata l’avevamo fatta a piedi perché è bella) quando ci hanno detto no, niente cani sul bus ci ho visto verde, l’arrabbiatura che abbiamo preso in quel momento per una cosa del genere in un paese come la Francia, dove i cani sono accolti ovunque, non hai idea, inoltre stava arrivando un temporale e avevamo circa 3 chilometri a piedi da fare.
Così abbiamo cominciato a correre, il vento freddo sferzava, le nuvole nere minacciose si avvicinavano e il mare era in tumulto, come il mio cuore. Correndo lungo la passerella ogni tanto mi fermavo e guardavo indietro la meravigliosa rocca e lo spettacolo toglieva il fiato, avevo le lacrime dall’emozione, scattavo foto al volo e poi tornavo a correre a perdifiato. Sono a tutt’oggi le foto che amo di più.


Guardavo Pongo preoccupata che non ce la facesse ma quando ricominciavo a correre dopo brevi pause per riprendere fiato lui mi guardava e ricominciava a correre con me; io avevo un misto di paura per il temporale, preoccupazione nel vederlo correre a perdifiato (i cani anche se non ce la fanno seguono comunque il branco, perché si fidano. E ancora questo senso di responsabilità nel prendersi cura di loro nel migliore dei modi) in mezzo al nulla con nessuno intorno unito ad un misto di divertimento totale e assoluto, ridevo tantissimo e avevo gli occhi lucidi dalla gioia perché mi stavo divertendo un mondo, erano emozioni intense che non provavo da tanto. Mi appariva tutto terribilmente MERAVIGLIOSO.
Senza Pongo tutto questo non lo avrei MAI vissuto, non avrei mai visto la rocca allontanarsi piano piano al tramonto.
Se non avessimo avuto Pongo saremmo saliti sul bus e rientrati alla macchina, fine. Il non poter salire sulla navetta è quello che molte persone vedono come l’ostacolo di avere un cane.
E invece è stata l’opportunità che ci ha evitato di rimanere ammassati insieme ad altre persone senza vedere nulla. Eravamo un piccolo branco che correva selvaggio in un luogo stupendo per rientrare nella piccola tana e proteggersi dal temporale.
Ed è così che si dovrebbe vivere, che IO vorrei vivere, con il mondo addosso, sulla pelle, senza troppi filtri. Oggi soffro perché oltre alla perdita di un affetto enorme ho paura di aver perso il compagno che mi insegnava a vivere così e forse l’ansia che provo è questa, di non riuscirci da sola.
Negli ultimi suoi giorni l’ho fotografato tanto, come se non avessi già migliaia di foto e video suoi, ma era come se avessi la necessità di imprimere i suoi ultimi momenti, gli ho anche fatto molte foto quando non c’era più ed era rimasto solo il suo corpicino vuoto e il suo musetto splendido.
Le immagini, come le parole, mi aiutano a mettere in fila i pensieri che si rincorrono e si appallottolano in un enorme gomitolo nella mia testa che mi toglie il fiato.
Per me la fotografia è un passaggio che attraversa il dolore. La fotografia non è, la fotografia rappresenta.
Rappresenta un dolore, rappresenta uno strazio, rappresenta una morte.
In questi giorni ho continuato a guardare le sue foto e i suoi video, per qualcuno guardare le immagini di affetti che ha perso è un amplificatore di dolore e forse lo è anche per me ma allo stesso tempo mi è necessario.
Mantenevo (e mantengo) il mio cervello impazzito in una dimensione rappresentativa che riconosco, il senso di colpa e i pensieri ossessivi mi facevano e mi fanno dimenticare molte cose oggettive che i video e le foto invece mi ricordano, tenendomi ancorata a terra. Non mangiava più da dieci giorni, non faceva più le scale, non riusciva più a bere, era confuso e andava a sbattere, faticava a camminare.
E poi mi ricorda che sì, è morto, il suo corpo immobile mi riporta a momenti reali, accaduti, mi batte sulla spalla e mi dice che l’ho salutato, accarezzato, accudito.
Mi ricorda che è stato un cane felice, che abbiamo fatto tante cose che altrimenti avrei dimenticato, mille e mille piccole, piccolissime cose che senza foto si perderebbero nella mia memoria e senza immagini “reali” il cervello altera ricordi, immagini, emozioni.
Con la foto invece è tutto lì, la fotografia è il portale verso quell’attimo di vita colmo delle emozioni provate in quel momento.
Quando scattiamo una foto imprimiamo non solo la luce su una pellicola o su un sensore, imprimiamo anche i pensieri che abbiamo elaborato in quel momento e il potere magico avviene quando la riguardi, e più la riguardi più quel ricordo si imprime.
Hai mai fatto caso che quando riguardiamo foto vecchie la frase che esce spontaneamente è quasi sempre: “Dai ti ricordi qui che…” e improvvisamente intorno a quell’immagine si ricrea il ricordo di tutto quello che è fuori dalla cornice della foto, quello che nessun altro vede o ha visto e quello che nessun altro prova o ha provato.
Ti ho raccontato di Pongo un po’ a parole ma anche tanto con le immagini, tu non sai per ogni foto in questo post dove eravamo o cosa stavamo provando, perché i ricordi sono solo miei e di chi era con me in quei momenti, ma tutte queste foto sintetizzano fiumi e fiumi di parole che avrei dovuto scrivere per raccontarti quanto tempo ho trascorso con lui, quante volte l’ho abbracciato, coccolato, baciato, tutti i posti che abbiamo visto insieme, tutte le volte che abbiamo passeggiato insieme, tutte le volte che ero felice per la sua compagnia, tutte le volte che era in forma, stanco o, alla fine, anziano e malato.
E se torni alla prima foto, e poi guardi quest’ultima, vedrai tutti i suoi “quasi” 18 anni.
In due foto, tutta la sua vita.

Voglio salutarti con le splendide parole che mi ha detto una carissima amica e persona di grande cuore che due anni fa ha perso la sua Greta (che ho avuto l’onore di conoscere e veder scodinzolare) e che è passata attraverso questo dolore:
Per forza questi cuori con la coda ti cambiano. Se non succede, hai perso l’occasione della vita.